top of page

Una sfida che l’Italia non può perdere


lastampa

ALESSIA DE LUCA

Quella sulla Cooperazione allo sviluppo è una sfida che l’Italia non può e non deve perdere, nonostante gravi ritardi e lacune strutturali stiano minando il percorso del Belpaese in un settore considerato strategico nell’era della globalizzazione. Mancano poco meno di due anni al Settembre 2015, quando l’Assemblea Generale dell’Onu e la Comunità internazionale si doteranno di una nuova agenda per lo sviluppo globale e, soprattutto, di una nuova ‘road map’ per rinnovare gli Obiettivi del Millennio, sanciti nel 2000.

Obiettivo comune, e di portata mondiale, è porre fine alla povertà estrema in tutte le sue forme. Una promessa che il nostro paese ha sottoscritto già nel lontano 2000 e che lo impegnava a versare, entro i successivi 15 anni, una quota annua pari allo 0,7% del suo Pil per contrastare la miseria, diminuire i tassi di mortalità materne e infantile, sostenere gli ammalati di tubercolosi, Aids e malaria, creare le condizioni di accesso all’istruzione e alla cure sanitarie di base e garantire ad ogni essere umano di bere acqua potabile.

Un progetto ambizioso a cui l’intera comunità internazionale ha aderito con enfasi ma che nel corso degli anni ha accusato i colpi di scelte politiche avverse e di una crisi economica vorticosa, che ha rimesso in discussione agende e impegni in materia di assistenza.

Il taglio dei fondi

I numeri parlano chiaro: in questi 13 anni l’Italia ha destinato agli Aiuti pubblici allo sviluppo (Aps) circa lo 0,2% del Pil, attestandosi il fondo alla classifica dei donatori stilata dall’Ocse e quel che è peggio è tra i paesi responsabili del fallimento di tutta l’Unione Europea. In un generale trend negativo, che nel 2012 ha visto una contrazione del 4% dei contributi a livello mondiale e del 7,4% a livello europeo, il nostro paese è riuscito a far peggio: nel 2012 si è registrato un -36% dell’impegno totale, pari allo 0,13%: circa un miliardo e mezzo di dollari in meno rispetto all’anno precedente.

Si tratta di un ammontare che dimostra l’inadeguatezza della politica di cooperazione, tenuto contro che le disponibilità finanziarie, per il 2012, sono addirittura inferiori a quanto le prime due Ong italiane per raccolta fondi da privati (Medici senza frontiere e ActionAid) hanno raccolto dai cittadini italiani.

Peggio di noi, in Europa, solo la Grecia. E proprio mentre dietro l’angolo ci attende, nella seconda metà del 2014, il semestre di presidenza dell’Unione Europea, a cui rischiamo di presentarci con addosso la lettera scarlatta di paese europeo più sordo alle richieste delle regioni meno sviluppate. Ecco quindi che negli ultimi 12 mesi, i governi che si sono succeduti alla guida del paese hanno cercato di invertire la tendenza, impegnandosi ad aumentare il sostegno alla cooperazione internazionale dallo 0,2 allo 0,3% entro il 2017.

A motivare questa scelta, al di là del tentativo di recuperare credibilità nei consessi internazionali, interviene un recente mutamento nella percezione degli Aps – rafforzatosi dopo le crisi della cosiddetta Primavera Araba – secondo cui gli investimenti nello sviluppo globale costituiscono la strategia migliore per prevenire crisi internazionali e sviluppare profondi rapporti di cooperazione commerciale.

Cooperare, un’opportunità non un lusso

Secondo i rapporti commissionati dal Parlamento e confermati dagli studi di settore, negli ultimi 20 anni ogni euro speso in cooperazione è rientrato sotto forma di commesse commerciali. Un dato che – improvvisamente – trasforma la Cooperazione, generalmente percepita come ‘un lusso’ che in tempi di crisi non ci si può permettere, in potenziale opportunità per la ripresa. E le cifre che caratterizzano il comparto sembrano confermarlo: in Italia dal 2001 ad oggi la Cooperazione è cresciuta, sotto il profilo occupazionale, del 61% ed è uno dei pochi settori in cui le donne rappresentano il 52% della forza lavoro, mentre il 53% dei lavoratori ha meno di 40 anni.

Inoltre, come conferma un rapporto ISPI del febbraio 2012 “studi di settore dimostrano che gli aiuti contribuiscono a rafforzare relazioni politiche e canali commerciali” e quantifica il ritorno degli aiuti italiani, in termini di esportazioni, “ad una cifra pari a 93 centesimi per ogni euro speso in sviluppo e assistenza”. Tradizionalmente, osserva l’autore, Lia Quartapelle “si riteneva che gli aiuti ai paesi in via di sviluppo dovessero essere garantiti per ragioni solidaristiche, di cui avrebbero beneficiato solo in paesi destinatari. Ricerche successive dimostrano che non è così: i donatori stanziano contributi anche per interessi personali, influenza geopolitica, prestigio internazionale e logiche commerciali”.

Di conseguenza una progressiva riduzione degli aiuti “può avere un impatto rilevante sulla promozione delle esportazioni italiane” oltre che sulla posizione e reputazione del nostro paese nei consessi internazionali.

La mancata riforma della legge 49/1987

“Per rendere concreto il cambiamento, occorre affermare una nuova visione dello sviluppo e delle politiche che ne regolamentano le attività” spiega Luca de Fraia, presidente dell’Ong Action Aid: in Italia, da anni le organizzazioni non governative e gli operatori del settore chiedono una riforma della Legge 49 del 1987 che sancisce e disciplina le norme della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo.

Nata prima della caduta del muro di Berlino la legge porta evidenti i segni degli anni, in un contesto internazionale radicalmente cambiato rispetto a un quarto di secolo fa, in cui ad esempio, Brasile, Cina , India e Indonesia – entro il 2050 – contribuiranno al 40% del Pil mondiale.

“Si tratta di aggiornare la legislazione ai mutamenti globali – insiste De Fraia – e di adottare un sistema più trasparente che favorisca le necessità di una programmazione pluriennale”.

Negli ultimi 20 anni, la normativa è stata disarticolata da una serie di leggi successive che ne hanno modificato e abrogato numerosi commi, privandola di indipendenza, flessibilità e capacità operative. In molti lamentano una totale sussidiarietà dell’istituto della Cooperazione, che la mantiene ‘incardinata’ nel ministero degli Affari Esteri.

Una posizione ancellare in cui, durante il governo Monti, si era cercato di porre riparo con la creazione di un ministero della Cooperazione (senza portafoglio) affidato al fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. Un incarico non rinnovato nell’attuale esecutivo, sostituito dalla figura di un viceministro con delega, Lapo Pistelli. Ciascuno rappresenta una delle due tendenze, individuate in altrettanti disegni di legge per la Cooperazione, parcheggiate in Commissione Esteri al Senato: uno prevede la figura di un viceministro e un’agenzia dedicata e l’altro un ministro senza portafoglio e un dipartimento alla presidenza del Consiglio.

La direzione Generale alla cooperazione (Dgcs)

In attesa di una riorganizzazione, che tutti sembrano volere ma che viene puntualmente rinviata in nome degli interessi politici e di una lunga fila di leggi e istituti in attesa di riforme, l’attuale assetto legislativo colloca la Cooperazione all’interno del ministero per gli Affari Esteri (Mae), e segnatamente in quella Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs).

Un organismo finito nei giorni scorsi nell’occhio del ciclone per un’inchiesta che ha svelato come, mentre le risorse si assottigliano anno dopo anno, consulenti ed esperti privati – le cui dinamiche di reclutamento appaiono poco chiare – vengono mandati in missione all’estero con indennità e stipendi mirabolanti, pagati coi fondi pubblici destinati ai programmi di sviluppo.

Si tratta di eccezioni, casi isolati che purtroppo riflettono malcostumi diffusi un po’ dappertutto nella pubblica amministrazione italiana – ribattono fonti interne al ministero –sottolineando che i meccanismi di assegnazione degli incarichi a esperti esterni e soprattutto i controlli finanziari sono già sottoposti alla supervisione della Corte dei Conti.

Ci vorrebbe un roster – secondo altri – una lista selezionata, da aggiornare continuamente, di persone e organizzazioni affidabili i cui risultati sul campo possano fungere da garanzia per l’appalto di progetti futuri.

Di fatto mentre gli enti pubblici e le regioni, aspettano per anni di vedersi restituire milioni di euro anticipati come crediti d’aiuto e le organizzazioni non governative a corto di fondi chiudono i battenti, scandali come questo dimostrano l’urgente necessità di una riforma del sistema.

Decreto Missioni, una sproporzione vistosa

Il 4 ottobre scorso, con qualche giorno di ritardo sul calendario, il Consiglio dei ministri ha approvato la proroga delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e delle iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali.

Il governo ha deciso di aumentare gli stanziamenti per la cooperazione e la ricostruzione, diminuendo rispetto allo scorso anno i finanziamenti per le missioni militari all’estero. Con i fondi stanziati per gli ultimi tre mesi del 2013 e quelli già assegnati nei primi nove dell’anno, il bilancio annuale per gli interventi italiani all’estero raggiunge 1,25 miliardi di euro, in riduzione rispetto a 1,4 miliardi del 2012 e a 1,55 del 2011.

In parallelo, alle iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione in favore di Afghanistan, Iraq, Libia, Mali, Myanmar, Pakistan, Siria, Somalia, Sudan, Sud Sudan sono destinati circa 23 milioni di euro che, unitamente alle risorse stanziate nei primi mesi dell’anno, raggiungono quota 98 milioni per il 2013.

Una sproporzione vistosa, in linea con le politiche degli ultimi anni, che a fronte un progressivo aumento dell’impegno militare all’estero, hanno riservato alle attività civili della cooperazione solo pochi spiccioli.

Ripensare gli Aiuti pubblici allo sviluppo

Tuttavia, in Italia il nodo dell’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) non risiede soltanto nelle poche risorse di bilancio che vi vengono destinate, quanto nella scarsa convinzione che le élites politiche hanno del suo ruolo politico e strategico. È questa debolezza strutturale, al di là della retorica, che espone la Cooperazione a ridimensionamenti e tagli di spese. Ma a livello mondiale, gli orizzonti stanno cambiando e così anche le priorità dei governi.

I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) hanno mostrato chiaramente la volontà di modificare radicalmente il sistema geopolitico globale partendo proprio dalle politiche dedicate agli aiuti allo sviluppo. Occorre, dunque, un ripensamento strategico che torni a sottolineare la rilevanza della politica estera nell’ambito delle politiche nazionali, aumentandone e riqualificandone investimenti e dotazioni, e che ridefinisca, in questa nuova cornice, anche il ruolo “politico” della cooperazione.

Comments


bottom of page