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L’editoriale sull’Huffington Post: Dopo Parigi, il costo di chi siamo

Dopo Parigi, il costo di chi siamo

In momenti come quelli che viviamo dopo Parigi, ci sembra faticoso continuare ad essere come siamo. Si è infatti aperta la discussione su una supposta debolezza intrinseca dei sistemi aperti, democratici e quindi più fragili. Dopo gli attentati di Parigi, infatti, l’Europa sembra essere stata contagiata dal dibattito sul declino del sistema plurale che si fa strada ciclicamente negli Stati Uniti. C’è chi dice che il non aver affermato con chiarezza la nostra identità europea, il permissivismo e un malinteso multiculturalismo senza dialettica hanno aperto le porte a forme radicali di opposizione a ciò che siamo che mineranno le fondamenta stesse delle nostre società.

Eventi traumatici per la collettività europea portano certamente a riconsiderare l’esistente, e le sue fondamenta, e la strada aperta in prospettiva. In Europa, e più in generale in occidente, viviamo in un contesto dove sono garantiti pace, sicurezza e un livello di benessere economico che, pure in un periodo di crisi prolungata come quello presente, sono di gran lunga superiori a quelli di molti paesi al mondo. E il nostro sistema, dove coesistono libertà, sicurezza e diritti sociali ed economici – in un certo senso liberté égalité e fraternitè – è un sistema indubbiamente attraente: per questo, solo nel 2012, 1.693.000 persone sono entrate legalmente come immigrati dentro lo spazio comune dell’Unione europea. Ed è per queste caratteristiche e la complessiva attrattività del sistema che un simbolo della capacità di vivere liberi – e ridere liberi – come Charlie Hebdo è stato brutalmente attaccato. Così come l’assalto al supermercato kosher è un attacco a uno dei principali punti di forza dell’Europa, cioè la capacità di vivere uniti nelle diversità. Non siamo quindi primariamente una società debole, ma siamo fondamentalmente una società di qualità, fondata su un messaggio seducente, che sovverte le logiche fondamentaliste. Proteggere – e in seconda istanza valorizzare e promuovere – il nostro sistema ha però un costo, che dopo Parigi appare ineludibile, persino all’opinione pubblica che in questi anni sulle vicende del fronte esterno ha prestato molta meno attenzione rispetto a quella necessaria.

Il primo costo è quello di restare saldi e fermi nei nostri valori, pur affrontando la minaccia fondamentalista. Non sarà facile: quando si è trattato di prendere misure contro il terrorismo integralista, si è lasciato troppo spazio a decisioni e pratiche che negavano chi siamo, come nel caso delle torture della Cia su sospetti di terrorismo o nella sorveglianza ossessiva svelata dallo scandalo Datagate. È doveroso rafforzare le misure di sicurezza, lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence, le misure restrittive delle libertà di chi, reclutato come soldato del califfato, viola il patto di cittadinanza con il proprio Stato. Sarà importante rafforzare l’intelligence all’interno di un meccanismo di trasparenza e legittimazione da parte dei cittadini, e all’interno delle regole e dei principi dello stato di diritto. Allo stesso modo, la securitarizzazione delle nostre società non ci renderà immuni dalla minaccia terroristica. Dovremo trovare antidoti chiari ai messaggi semplificati ed estremizzanti di una parte della politica. I terroristi si definiscono islamici, facendo un torto per primi alla loro religione, ma questo non legittima chi bolla tutti gli islamici come potenziali terroristi. Per combattere la paura generata dagli attacchi di Parigi dovremo trovare le parole e i simboli giusti per creare unità nella nostra società, capacità di coesione e di dialettica, e non inserire elementi di frattura. Le immagini della marcia repubblicana di Parigi sono in questo senso un segno di speranza.

Il secondo costo è quello di combattere i terroristi nel loro retroterra strategico. I fratelli Kouachi, Ahmed Coulibaly sono soldati di una guerra ibrida che usa anche l’arma terroristica, e sono stati addestrati nelle zone dove oggi si sta cercando di creare un califfato. È lì che la battaglia contro il terrorismo va a colpirne le radici. La guerra per procura, i bombardamenti contro un sistema statuale aggressivo come Isis non sono abbastanza. Bisognerà evitare gli errori del post 11 settembre, identificando con chiarezza il nemico – non c’è solo Isis nel mondo del califfato globale, ma ancheBoko Haram, le milizie somale di Al Shabaab, una parte dei combattenti in Libia, alcune formazioni integraliste nel Sinai – impostando un rapporto diverso con le popolazioni locali e distinguendo le situazioni in cui si può combattere la guerra contro il terrorismo. Ci si dovrà impegnare direttamente, perché il non aver trattato i problemi conseguenti alle Primavere arabe non li ha risolti, li ha peggiorati. Il fronte esterno e il fronte interno comportano dei costi, dopo Parigi. Che sono però ineludibili, se vogliamo continuare ad essere ciò che siamo.

Pubblicato sul Huffington Post il 15/01/2015 18:18 CET

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