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Il rinnovamento del Pd non può attendere


Il dibattito sul ricambio generazionale in politica, già stucchevole se affrontato dai giovani, lo diventa ancora di più se è praticato dalle generazioni che hanno frequentato abbondantemente la politica. Gianni Cuperlo in un articolo del 25 marzo su l’Unità non si sottrae al dibattito, senza però, secondo noi, centrare la questione.

Nei fatti, il risultato elettorale ha segnato e forzato un ricambio che pone in prima linea una generazione se non totalmente nativa del Pd che però nel Pd ha avuto i primi incarichi significativi di dirigenza. L’analisi, quindi, sembra non inquadrare il problema per due elementi: da un lato, si confonde una descrizione dei limiti del Pd con una «mancanza di rispetto». Dall’altro, si sottovalutano responsabilità e percorsi che hanno portato alla formazione di questa classe dirigente. II nervosismo che anima alcuni democratici, soprattutto giovani, può essere letto come un rifiuto netto del passato. Questo nervosismo, non «rabbia», nasce piuttosto dal ritardo con cui è nato il Partito Democratico. Il partito doveva nascere prima non per esigenze di posizionamento, ma per significare la consapevolezza di un’esigenza: le due culture di provenienza non erano più in grado di interpretare il «nuovo mondo». Lo scenario globale collocava l’Europa, e al suo interno l’Italia, in una posizione diversa, al tempo stesso decentrata, ma anche portatrice di un messaggio unico nella storia mondiale. La caduta del muro di Berlino, lungi dal decretare la fine della storia, aveva aperto la strada ad altri equilibri geopolitici. La questione sociale non poteva più trovare una sintesi nella contrapposizione tra classi, ma doveva essere riformulata tenendo conto dei processi di globalizzazione produttiva e dell’irrompere di nuove forme di diseguaglianza. Occorrevano, già allora, nuove sintesi e nuove interpretazioni che superassero le visioni e i criteri del passato. L’ansia di «rottamare», di rimuovere anche porzioni importanti di esperienza istituzionale e politica, nasce dalla percezione che, con gli strumenti del passato non si riusciva più a capire, «nominare» e quindi governare la realtà.

Per troppo tempo, almeno dal 1996, le storie e le memorie fondative dell’Ulivo prima e del Partito Democratico poi hanno soffocato una diversa interpretazione della società in divenire. Le storie erano e sono la zavorra del Partito Democratico, altro che rispetto. Perché meravigliarsi, quindi, se l’impulso al cambiamento, oggi, diventa ruvida scortesia dopo che il partito nato al Lingotto ha perso quasi quattro milioni di voti dal 2008 al 2013? Se alla débacle della destra berlusconiana degli ultimi anni, seguita dalla confusa creazione di nuovi orientamenti nel centro e a destra, il Partito Democratico ha saputo rispondere, ancora una volta, proponendo lo stesso schema di un’alleanza a sinistra? Se in un momento di crisi non si è riusciti a delineare con chiarezza e a raccontare con positività un progetto che parlasse del futuro dell’Italia? Se con la esclusiva difesa dell’articolo 18 si è persa la possibilità di diventare referenti credibili agli occhi una generazione – quella che ha meno di 30 anni – che non vede prospettive reali di lavoro e per il 40% è disoccupata? Se la Seconda Repubblica non è riuscita a dare un quadro di riforme all’Italia e il Paese oggi è più bloccato che nel 1994? Oggi, abbiamo tutti la netta percezione che non c’è più molto tempo per intraprendere la strada del cambiamento: altri attori politici, nuovi e dinamici, senza storie paralizzanti ma più leggeri nella cultura politica, lo stanno facendo al nostro posto.

Un intelligente editorialista della stampa di Torino ha giustamente parlato di una invincibile vocazione minoritaria del Pd, visto che ci ostiniamo a ritenere che la sinistra del nostro tempo sia quella del Novecento, solo leggermente modificata. Non è giusto che chi ha la responsabilità di aver portato l’Italia in queste condizioni faccia pesare sulle nuove generazioni non solo il debito, un’economia in stagnazione da dieci anni e in recessione da quattro, ma anche un atteggiamento non rispettoso nei confronti delle storie da cui proviene il Partito Democratico e il fatto di non avere strumenti per affrontare la vita nelle istituzioni. Non è giusto perché una nuova classe dirigente del Pd doveva essere in piedi e autonoma da tempo. Purtroppo, il tempo per un educato passaggio del testimone è scaduto. Lasciamo alla storia la ricostruzione critica del Novecento. Il contributo degli storici e delle memorie è importante, ma la tensione tra storia e politica è sempre stata forte. Tra vita e forme c’è lo spazio della decisione, che purtroppo non può mai essere garantita dalla sola esperienza del passato.

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